Dottor Maltoni, quello di Piergiorgio Welby è senza alcun dubbio un doloroso calvario. Si tratta di un caso comune per i medici che hanno a che fare con i malati terminali, oppure presenta aspetti che escono dall’ordinario?
«È una situazione non frequente che deriva da una malattia rara, della quale sono afflitte in Italia oggi circa seimila persone in fasi diverse. Quella di Welby è una fase avanzata, con una necessità di ventilazione assistita tramite tracheotomia. È evidente che la sofferenza di quest’uomo è a un grado estremo. Ma ci sono tante altre persone che stanno affermando, nelle stesse condizioni, la positività della vita. In Welby la gravità oggettiva della situazione si somma a una disperazione e a un’assenza di senso della vita. In più, le persone che gli stanno attorno fanno di lui una bandiera ideologica».
Tecnicamente, cosa succederebbe se il Tribunale di Roma si pronunciasse per il sì al distacco del respiratore che permette a Piergiorgio Welby di vivere?
«Innanzitutto ci vorrebbe qualcuno che esegue la manovra. Nell’immediato ci sarebbe una situazione di soffocamento e allora si dovrebbe sedarlo. Per evitare la sofferenza, la sedazione dovrebbe però precedere e non seguire la manovra di distacco. Ora, Welby chiede di essere sedato in modo massivo e improvviso, quindi chiede qualcosa di molto più simile all’eutanasia che alla sedazione terminale, che si somministra gradualmente anche per giorni, per alleviare il crescendo dei sintomi con l’avvicinarsi della morte. Morirebbe dunque perché non respirerebbe più, o per il massiccio utilizzo di farmaci?».
Se, come lei afferma, quella di Welby è una situazione così particolare, non le sembra che sia anche la meno indicata per suscitare un dibattito sulla possibilità di una legge pro-eutanasia?
«Pensare a una legislazione basata su questo caso singolo, in effetti, non mi pare giusto, per l’aspetto di emotività che esso ha scatenato. Quando si fa anche una piccola breccia in una questione come la qualità della vita, si sa dove si inizia, ma non si sa dove si va a finire».
La sedazione terminale è eticamente accettata dalla comunità scientifica?
«Innanzitutto va smitizzata la convinzione secondo la quale la sedazione ad alte dosi, quando il sintomo non si controlla in alcun modo, sia un’eutanasia indiretta perché provoca il decesso del paziente. C’è infatti una differenza di intenzioni: nella sedazione palliativa l’intento è alleviare il sintomo, nella manovra eutanasica è uccidere il paziente. A livello di procedura, nell’eutanasia c’è un farmaco iniettato in dose massiccia, mentre nella sedazione c’è un progressivo abbassamento di coscienza per far sentire al malato il minor dolore possibile. Questa sedazione va monitorata piano piano in base alla risposta del sintomo. Terzo, nell’eutanasia il risultato è la morte, nella sedazione il sollievo del sintomo del paziente. Anche il magistero della Chiesa, lo ricordo, dice che quando non c’è più niente da fare si può alleviare il dolore attraverso la sedazione».
Gli esponenti del Partito radicale, e in generale chi si riconosce nelle loro posizioni, sostengono che debba essere il malato a scegliere che cosa fare della sua vita. Lei cosa ne pensa?
«Credo che vadano spiegate bene luci e ombre del testamento biologico: esso può essere una protezione dall’accanimento terapeutico e può rimodulare il rapporto tra medico e paziente. Ma, per contro, chiediamoci: se passa troppo tempo tra la formulazione delle volontà e la loro attuazione, la medicina non potrebbe nel frattempo fare progressi? E, allora, queste volontà non potrebbero diventare imprecise? Quanto debbono essere vincolanti per il medico? A mio parere egli deve conservare la sua responsabilità professionale, ma non le nascondo che ci sono molti colleghi che non vedono l’ora di liberarsene. Il testamento biologico, poi, può essere un elemento di pressione gravissima sull’anziano fragile e in molti Paesi sta succedendo così. Il rischio è avere una visione contrattualistica della medicina per cui, in un tempo di mancanza di risorse, il malato più economico sembra essere il malato già morto».
Nel quadro che lei sta tracciando perderebbe importanza il progresso della medicina, soprattutto laddove ha consentito il controllo di alcune malattie che prima portavano alla morte molto più rapidamente.
«Sì, diventerebbe inutile quella medicina che si è sviluppata attorno ai pazienti cronici. Eppure sappiamo quanto valore c’è in una vita che si accompagna degnamente verso la sua conclusione. Lo sappiamo perché ognuno di voi vive o ha vissuto direttamente questa esperienza».
I bersagli di gran parte di questa campagna pro-eutanasia sembrano proprio essere i medici, accusati di disporre delle fasi finali della vita dei pazienti a propria discrezione. Perché?
«Non credo che sia così. Penso piuttosto che a risentire della campagna pro-eutanasia sarà la relazione medico-paziente. In passato essa era tutta sbilanciata a favore del paternalismo medico, ma oggi siamo all’opposto. È assurdo estremizzare il concetto di autonomia del paziente, che sappiamo essere inficiata gravemente da fattori interni quali la depressione, lo stato emotivo, l’ansia e l’angoscia di perdere la propria autonomia o di averla già persa, e fattori esterni quali il tipo di sguardo con cui il paziente viene guardato dalla propria famiglia o dai propri medici curanti. Fa perdere d’importanza il rapporto di cura con il medico, che non diventerebbe altro che un mero esecutore burocratico. Paradossalmente, allora, in futuro potremmo trovarci di fronte alla figura dell’"eutanasologo", che raccoglie la richiesta della cosiddetta autonomia del paziente. Che, in questa visione, è una monade estrapolata dalle relazioni umane».